Giorgia, Malika Ayane, Alice, Mia Martini. In ordine sparso questo è ciò amo della nostra canzone. Ma ce n’è un’altra che mi fa impazzire: Claudia Nahum, nata a Singapore, cresciuta a Londra, ma profondamente italiana. Si fa chiamare Baby K e ha la prima qualità che l’uomo medio possa cercare in una donna: mai noiosa, mai banale. Soprattutto, è uguale a sé stessa. Ha già collaborato con gente come Tiziano Ferro (“Ci sentiamo molto spesso, continua a darmi buoni consigli“), Guè Pequeno, Marracash e Max Pezzali (“Colosso della musica“), ma mi sorprende quando le chiedo con chi, oggi, vorrebbe fare un duetto…
“Una seria” è il suo ultimo singolo, sta lavorando lentamente al nuovo album e negli ultimi tempi ha fatto notizia per un qualcosa distante dalla musica: ha recentemente disegnato una collezione per il marchio di moda “Blackblessed”, ora l’ormai celebre simbolo #Alfagang campeggia su cappelli Snapback e Tshirt. Baby K è ‘una seria’, portatrice sana della musica urban in tutte le sue sfumature: molto attenta alla scena internazionale (cita, ad esempio, Nas e Ms. Dynamite), riesce – una volta ancora – a sbalordirmi, ricordando una leggenda del soul.
Partiamo low profile, perdonami: il tuo status what’s app è “Cake cake cake cake”, perché?
(ride) Nulla di più facile, è la canzone di Rihanna (“Birthday Cake”, ndr.), lei la usava per descrivere la bontà del suo corpo, e non solo. Lo faccio anch’io, scherzosamente e senza fare paragoni.
Prima della musica, un po’ di moda: il marchio “Blackblessed” campeggia all’interno di un megastore di Londra, che te ne pare?
Sono legatissima a Londra: è stata fondamentale per ‘iniziarmi’ alla scrittura dei brani. Avevo 14 anni, abitavo da quelle parti, è lì che mi sono avvicinata all’hip hop, subendo il fascino di generi come dubstep e UK garage. Tornando a Blackblessed, che dire… mi fa strano vedere il mio nome lì, il simbolo #alfagang. Sono contenta.
Il tuo ultimo singolo è “Una seria”, all’interno c’è anche un po’ di dubstep: in Italia questo genere non riesce ancora a decollare, nonostante i successi di Skrillex a livello mondiale…
Il pezzo che hai citato è un po’ più complesso e completo, nel senso che include anche un sassofono, archi e violini: alla fine è uscito fuori un ibrido parecchio originale, il merito va ascritto anche a Michele Canova. Hai ragione, nella classifica italiana non c’è dubstep, ma molti jingle radiofonici sono proprio dubstep, così come alcune pubblicità di MTV. I giovani lo adorano, forse anche per questo Skrillex è arrivato al successo grazie al ‘passaparola’: da noi è stato Salmo il primo italiano a rappare su basi dubstep, possiamo considerarlo un innovatore.
Hai aperto concerto di artisti come Nicky Minaj: è un tuo modello di riferimento? Oppure Azealia Banks?
Con la Banks penso ci siano tante differenze: siamo diverse, io guardo all’universo pop, quello che mi piace pensare come un macro-genere. Lei, invece, è più incline a sonorità elettroniche, è stata apprezzata subito anche per il suo coraggio,per qule tentativo di distinguersi dalle sue ‘concorrenti’. Non ha intrapreso la strada pop e hip hop, come ha fatto Nicky Minaj.
Domanda obbligatoria: quanto conterà Tiziano Ferro nel tuo prossimo album…?
Di certo il disco avrà delle sonorità meno americane e più UK, ma ancora è tutto in costruzione, non sappiamo neppure quando uscirà il primo singolo, né quale sarà. Con Tiziano è nata una grande amicizia: è una persona fantastica, ci sentiamo continuamente, ascolta le mie cose, s’interessa. Insomma, in un certo senso, sarà vicino al mio nuovo album, anche se non direttamente.
Andiamo indietro nel tempo: quali ascolti in particolare ti hanno stimolato a intraprendere questo percorso? Esiste un artista, uomo o donna, che ha avuto un peso specifico per i tuoi esordi?
Più di uno, assolutamente. Ma il nome più importante non può che riferirsi agli anni inglesi: ero ragazzina, andavo matta per il genere UK garage e MS. Dynamite rappresentava un vero punto di riferimento. Inizialmente rappava molto di più, poi ha firmato con una major e si è affacciata al canto più ‘puro’, se così vogliamo definirlo.
Tu hai scelto subito la strada dell’hip hop, non quella della musica leggera. L’hai fatto anche perché la concorrenza era inferiore e, quindi, maggiore la possibilità di colpire il pubblico e le case discografiche?
La risposta sarebbe lunghissima. Di base, lo giuro, vivere di musica non era nei miei pensieri, neppure un’opzione. Del resto, alcune cose puoi capirle da “Non cambierò mai”: nel bridge canto guardando lo specchio e, se dal testo esce fuori un dialogo con mia madre, invece è proprio a me stessa mi rivolgo. Io facevo musica nella mia cameretta, quasi per gioco, poi qualcuno ha creduto in me e così ho cominciato. A un certo punto mi sono anche fermata, perché ero consapevole che sarebbe stato praticamente impossibile vivere di musica: soffrivo tanto, mi mancava il respiro. Poi è uscito “Femmina Alfa”: da quel video sono arrivate tante opportunità. Il resto della storia la conosci.
Mi dai un aggettivo per tre artisti con i quali hai collaborato? Marracash, Guè Pequeno e Max Pezzali…
Marracash è un genio, Guè Pequeno è un temerario, una sorta di trendsetter, musicalmente parlando. Per Max ho davvero difficoltà a trovare le parole giuste: è un colosso della musica italiana, ma non per via del suo nome – ci tengo a precisarlo -, soprattutto perché prima con gli 883 e poi da solo è riuscito a entrare nella storia della musica, scrivendo dei brani epici, delle hit ancora molto attuali.
Il tuo collega Mondo Marcio ha “virtualmente” duettato con Mina: c’è un cantautore italiano, tra quelli classici, che ti piacerebbe avvicinare per un progetto e/o un duetto?
Antonello Venditti, sarebbe bellissimo poter incrociare i nostri stili: sono convinta che uscirebbe fuori qualcosa di molto interessante. Sarebbe un ibrido, certo, ma io sono da sempre stata affascinata dalle grandi sfide. Chissà…
Tu non sei passata attraverso il meccanismo dei Talent Show: li hai mai seguiti? Hai un’opinione a riguardo?
Non ho mai voluto partecipare, perché non era la mia percezione di come si crea una carriera musicale longeva. Io volevo solo fare musica, lo facevo senza fare calcoli sulla fama e la notorietà. Volevo esprimermi solamente e tutt’ora valorizzo molto il concetto del ‘farsi una gavetta’. Così, ho rifiutato l’idea e la proposta.
Chiudo. Qual è la tua ‘canzone nell’armadio’, quella alla quale leghi un bel ricordo di infanzia?
Ne ho due, diverse loro e diverse le motivazioni. Una è “Poison” di Nas: un hip hop parecchio ricercato, studiato, mai banale. E’ stato un pezzo che mi ha stimolato a studiare, a fare un percorso all’indietro, creando un knowledge sull’hip hop.
L’altra canzone, invece, è legata ad un ricordo importante della mia vita: ero in Inghilterra col mio papà, ascoltavamo insieme “I just called to say i loved you” di Stevie Wonder. Mi commuovevo. Magari ti farà ridere, ma è così…
(foto ufficio stampa)
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