Il caso che riguarda Eminem, e i suoi brani utilizzati durante la campagna presidenziale di un candidato alla Casa Bianca, è solo l’ultimo di una lunga serie
Si è dato grande risalto nel corso degli ultimi giorni al clamoroso caso di un candidato presidenziale alla Casa Bianca nelle liste dei repubblicani, Vivek Ramaswamy, il cui uso di alcune canzoni e strofe scritte da Eminem è stato contestato dal rapper e dalla sua casa discografica.
A quanto pare il politico, dopo aver ricevuto una lettera di diffida da parte del musicista, ha ritenuto opportuno interrompere questa pratica, che era diventata consueta nel corso dei suoi comizi in questi ultimi mesi.
Ma il caso di Eminem è soltanto l’ultimo di una lunghissima serie di episodi che hanno spesso messo in relazione la politica e il mondo della musica in particolare il rock. Ci sono stati moltissimi artisti che hanno prestato i propri brani a politici che stavano puntando tutto sulla propria campagna elettorale, spesso per il massimo obiettivo, la Casa Bianca.
Uno dei casi più clamorosi, senza dubbio, è quello dei Fleetwood Mac che prestarono uno dei propri brani più conosciuti, la celeberrima Don’t Stop, che in Italia è diventata la colonna sonora di un celebre spot destinato alla telefonia cellulare, alla campagna elettorale di Barack Obama.
La canzone, scritta da Christine McVie autrice e tastierista della band per quarant’anni, scomparsa pochi mesi fa, aveva in realtà tutt’altro scopo. Era un brano ottimista e di ampio respiro destinato al suo ex marito, John McVie, il bassista della band, caduto in depressione dopo il loro divorzio.
Il celebre video di Clinton durante la festa finale della sua campagna elettorale
La canzone, in realtà, compare anche molto prima durante la campagna elettorale di Bill Clinton, grande appassionato di musica, discreto sassofonista, e fan dei Fleetwood Mac da sempre. La festa finale di quella campagna elettorale vide proprio Clinton con tutta la sua famiglia sul palco cantare Don’t Stop insieme alla band e a Michael Jackson.
Particolarmente impegnato in temi politici, da sempre, è Bruce Springsteen che ha avuto un rapporto controverso e spesso conflittuale con diversi politici.
Negli anni ‘80, quando all’apice della politica americana c’era Ronald Reagan, la sua canzone Born in the USA diventò colonna sonora di alcuni comizi dell’ex presidente che in un comizio in New Jersey, lo stato del Boss lo definì, un figlio dell’America di cui essere orgogliosi.
Springsteen, che era in tour, gli rispose per le rime direttamente dal palco: “Ho saputo che il presidente parla di me e usa una delle mie canzoni per la sua campagna elettorale. Non capisco però perché non ha utilizzato questa che sarebbe molto più adatta alla sua politica… forse perché non ha mai ascoltato il mio disco Nebraska, forse perché non conosce questo brano…” E attaccò una durissima versione di Johnny ’99, canzone che racconta di un operaio condannato a 99 anni di prigione dopo avere ucciso un commesso notturno di un drugstore mentre, ubriaco, girava per la città dopo avere perso il suo lavoro.
Bruce Springsteen accettò di buon grado di comparire a fianco a Barack Obama durante la sua campagna elettorale. Ma quando l’America fu investita da gravi problemi non ebbe esitazioni a registrare una canzone estremamente critica nei confronti del presidente, We take care of our own, nella quale accusava la politica di non essere capace di fare il suo mestiere e invitava la gente a prendere in mano il proprio destino sociale.
Molto famoso anche il caso di Neil Young che nel 2015 chiese a gran voce allo staff di Donald Trump di smettere di utilizzare la sua canzone Rockin’ in the Free World come tema conduttore della sua campagna elettorale. Trump la cancellò dalle sue scalette solo dopo che i suoi legali lo avvisarono che la causa che Young avrebbe intentato poteva costargli alcune decine di milioni di dollari in danni. Oltre che la simpatia di milioni di elettori moderati.
Stessa cosa per George W. Bush che nel 1989 aveva scelto tra i brani della sua campagna elettorale I Won’t Back Down di Tom Petty, musicista con spiccate simpatie anarchiche che lo aveva definito “un cialtrone”.
Bush fece di testa sua. Chiese a una band di sostenitori di registrare una cover della canzone sostituendo alcune parole e cambiando il titolo che diventò We Won’t Back Down. Tom Petty lo denunciò, vinse, incassò diritti d’autore e danni prese in giro il presidente per tutta la durata di un tour. Si dice che questa controversia sia costata molti soldi ma anche parecchi voti al presidente che venne rieletto con un calo di consensi notevole all’inizio del suo secondo mandato.
Anche Pink si è platealmente schierata contro George W. Bush in una delle sue canzoni politicamente più intense, Dear Mr. President, un brano acustico nel quale scrive una lettera allora presidente americano chiedendogli conto delle sue missioni militari e del suo comportamento personale e familiare.
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