Un documentario ha fatto luce su ombre e dolori che riguardano la vita di Raffaella Carrà il cui nome continua a creare emozione
Tre ore di documentario investigativo, come nello stile di Daniele Lucchetti. Ha avuto un ottimo riscontro nelle sale italiane Raffa, una vera e propria indagine dedicata alla vita di Raffaella Carrà.
Non si tratta del solito bio-pic, anche se a tratti tra le pieghe narrative del racconto trapelano dettagli intimi e mai completamente rivelati né noti.
Tra gli autori anche Barbara Boncompagni, la figlia di uno dei compagni storici di Raffaella, che le ha sempre voluto molto bene anche quando i due si lasciarono. Anche se Raffa, questo il titolo del documentario, di figli propri non ne aveva mai avuto. Un’icona estremamente amata, anzi… la più amata dagli italiani, come la pubblicità di un noto mobilificio che la volle come testimonial, che ha sempre rappresentato gioia di vivere, coinvolgimento, inclusione, festa, partecipazione. E che invece nella sua vita aveva dovuto affrontare molti motivi di sofferenza e di delusione. Che mai trapelavano da una immagine perfetta, scintillante e assolutamente inattaccabile.
Una delle ombre è proprio quella riguardante i figli… “Non sono mai arrivati, non è vero che non li ho voluti” rispondeva con una punta di fastidio, ma sorridente, a giornalisti che le continuavano a fare la stessa domanda anche quando figli Raffaella non ne poteva più avere da un pezzo. Forse tutti avrebbero sognato una sua erede, magari identica a lei. Che però non c’è. E quando le chiedevano se vedeva una erede artistica tra le molte soubrette che si erano alternate al centro della scena dopo di lei, sempre sorridendo, diceva semplicemente… “sono tutte estremamente brave”. E se insistendo le facevano nomi e cognomi (Heather, Lorella o altre) ribadiva… “Davvero, sono tutte estremamente brave”.
Non lo voleva dire che non ci sarebbe mai stata nessuna come lei. Ma è un dato di fatto. Non c’è più stata nessuna come Raffa.
Molto belle le ambientazioni del documentario, tre ore, al cinema in esclusiva per una settimana e poi in tre puntate di un’ora, sempre in esclusiva, su Disney+. Ci sono i suoi ricordi, i premi, i tanti vestiti di scena – sgargianti e luccicanti – appesi in diversi contesti che le appartenevano. In una ricostruzione che è molto più personale che artistica. Dal cognome d’arte… “suona bene, è musicale” a sostituire quello paterno – Pelloni – che in effetti non le piaceva. Un po’ perché era il cognome di un bandito irriducibile che quando Raffaella cominciava la sua carriera era ancora estremamente famoso in Italia. E un po’ perché suo padre l’aveva letteralmente abbandonata quando era ancora molto piccola.
Poi gli esordi, molto faticosi e non sempre di successo. Al cinema per esempio: dove i registi le chiedono più di spogliarsi che di recitare. Prima della lunga maratona sul piccolo schermo che la vede diventare nostra signora della TV. Un’immagine che da una parte le sarà molto stretta, perché lei era davvero in grado di fare tutto – una delle poche – anche se la RAI le chiederà soprattutto di condurre: perché nessuna come lei calamitava l’attenzione degli sponsor.
Il documentario, che raccoglie, analizza e incanala una mole immensa di filmati – oltre 1500 – molti dei quali inediti.
Il documentario traccia anche la sua storia sentimentale. Dal primo fidanzato famoso, Luigi Stacchini, giocatore della Juventus biondo e bello come un attore dell’epoca, a Gianni Boncompagni a Sergio Japino. Parlano i suoi molti compagni di lavoro: come Enzo Paolo Turchi, o Marco Bellocchio secondo il quale Raffaella non reggeva il primo piano della cinepresa. Salvo poi sopportare quello della telecamera per almeno trent’anni.
Le voci che la ricordano, in modo molto anticonvenzionale, lontano da quella aura di agiografia che sarebbe facilissima per una che santa era considerata da viva, sono decine. Raffaella attraversa in modo umano il terrorismo, celebre la sua decisione di andarsene dalla diretta di Pronto Raffaella poco dopo la strage del Rapido 904.
Era l’antivigilia di Natale del 1984: “Non volevo piangere – dice singhiozzando rivolgendosi ai bambini – la nostra unità è sempre messa in pericolo da qualcuno. Volevamo fare festa per i bambini che sono i protagonisti di Natale, ma oggi è impossibile giocare. Dovrete chiedere ai vostri genitori cosa è accaduto, e perché oggi non si può giocare. Dovranno spiegarvi purtroppo che cos’è la violenza. E scusatemi se oggi non abbiamo voglia di giocare … perdonatemi”.
La stessa voce, molto più arrabbiata, che guardando dritta in camera, avrebbe protestato a Domenica In per il titolo di un settimanale che la accusava, falsamente, di disinteressarsi delle condizioni di sua madre, ricoverata in una casa di riposo: “Non reagisco mai, ma mia madre non si tocca. Vergognatevi”. Era il 1987, sua madre sarebbe morta pochi mesi dopo.
Il documentario cerca di fare chiarezza sulla malattia che l’ha uccisa a 78 anni, quando pochissimi sapevano che stesse soffrendo, sulla famosa trasmissione che lei non voleva fare quando rapirono Aldo Moro – “perché la gente va rassicurata”, fu uno dei grandi motivi della sua lite con la RAI di quegli anni. Ma anche la donna potente e decisionista del dietro le quinte, quando tutti dovevano essere assolutamente perfetti e ballare fino a perdere le forze… “perché il pubblico merita questo e altro”.
Insomma non ci sono risposte ai misteri di Raffa. Resteranno tali. Ci sono cose che non vanno spiegate. Solo raccontate. Questo documentario ci riesce perfettamente.
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