Velvet Music ha incontrato Massimo Ranieri in occasione di Sogno e son desto… In viaggio al teatro Sistina di Roma. Ma non abbiamo parlato solo di questo: anche di Malìa, di Umbria Jazz, della musica rap, di Gianni Rock e di tanto altro… (TROVATE IL VIDEO IN FONDO ALL’ARTICOLO)
Abbiamo incontrato Massimo Ranieri in occasione di Sogno e son desto… In viaggio al Sistina di Roma (in scena fino a domenica 24 aprile 2016): un’occasione per parlare dello spettacolo teatrale (scritto dallo stesso Ranieri insieme a Gualtiero Peirce e che vede un’orchestra formata da Max Rosati, Andrea Pistilli, Flavio Mazzocchi, Pierpaolo Ranieri, Luca Trolli, Donato Sensini, Stefano Indino, Alessandro Golini) e di tanto altro, visto che si tratta di un artista eclettico e completo che passa con disinvoltura dal teatro, alla musica, passando per il cinema. Non a caso, rubando una frase a Totò, ama definirsi un operaio dello spettacolo. Nell’ottobre del 2015 ha pubblicato Malìa, un disco in cui per la prima volta si è trovato a confronto con la musica jazz. Una grande sfida che l’ha portato ad essere scelto per l’apertura dell’Umbria Jazz 2016 all’Arena Santa Giuliana venerdì 8 luglio.
Sogno e son desto è uno spettacolo teatrale, ma è stato anche un programma televisivo. Chi l’ha visto in tv, cosa si deve aspettare andando a teatro?
Chi ha visto il programma si aspetta di vedere la maggior parte delle cose apparse in tv. Ovviamente la televisione non è il teatro ed il teatro non è la televisione. La tv richiede altri tempi che non ha il teatro e viceversa. Per cui automaticamente Sogno e son desto diventa uno spettacolo teatrale. Ci sono macchiette, ci sono monologhi. Non ci sono gli ospiti, ovviamente! Diciamo che quello che il pubblico ha visto sul piccolo schermo è uno spettacolo teatrale prestato alla televisione. Ora sono tornato nel mio habitat naturale che è quello teatrale con le sue luci, i suoi tempi, con i miei musicisti, con il mio entourage, i miei monologhi, i miei tempi diversi da quelli televisivi. Lì sei sempre costretto a tagliare qualcosa perché, per esempio, deve essere trasmessa la pubblicità (sorride e indica l’orologio, ndr)! Stanno sempre con le forbici in mano lì, io no.
Qui è più tranquillo?
È più rilassante! Sei seduto su una poltrona teatrale, non sei a casa dove magari mentre ascolti una cosa sei costretto ad alzarti perché c’è la pentola sul fuoco. Qui ti alzi dal divano per venire a teatro a metterti comodo su una poltrona come quella del Sistina.
Qualche mese fa hai pubblicato Malìa, un album in cui per la prima volta proponi musica jazz. Com’è stato il confronto con questo genere?
Lasciamo stare (ride, ndr)! È stato un incubo inizialmente perché non mi sono mai confrontato con questo tipo di musica. La amo molto, ma non ho fatto un grande ascolto perché credo che ci si nasca con la passione per il jazz. Io vengo da tutt’altra estrazione, dalla grande e classica canzone napoletana, però ovviamente il mio orecchio si avvicina a tutto, perché è giusto sia così. La musica jazz è un po’ particolare, presta più attenzione e presta più orecchio. È stato un incubo, ma fortunatamente ho lavorato con grandi uomini e donne, nel senso che c’è la Marcotulli (Rita, ndr) al pianoforte, Di Battista (Stefano, ndr) al sax, alla tromba Rava (Enrico, ndr), poi Bagnoli (Stefano alla batteria, ndr) e Fioravanti (Riccardo al contrabbasso, ndr). Ho trovato delle persone meravigliose perché hanno capito che io non facevo parte della loro famiglia, però piano piano mi hanno tirato dentro con dolcezza, con semplicità, con amore. Hanno capito che non era il mio mondo, ma che lo amavo, come lo amo e volevo entrarci. Non so se ci sono entrato, resta il fatto che un disco è stato fatto, con delle canzoni particolari che richiedevano quel tipo di scrittura, quel tipo di sonorità, quel tipo di musicisti e grazie a Mauro Pagani è andato in porto il progetto.
In una recente intervista hai detto che…
Ahia (ride, ndr)!
Hai detto che a Napoli per i giovani la musica rap ha un po’ lo stesso significato che un tempo aveva, per esempio, quella di Pino Daniele. Secondo te perché c’è stato questo sviluppo della musica rap?
La musica rap non è altro che quello che faceva Pino Daniele all’epoca. Lui riusciva a coniugare la lingua italiana o comunque napoletana con il jazz, con il blues. Non a caso diceva A me me piace ‘o blues e tutt’e juorne aggio cantà (sorride, ndr). Il rap ha preso piede perché come una pedina di una scacchiera si è mossa e si è messa al posto di quella musica che non è stata più fatta a Napoli dopo Pino, dopo Avitabile, dopo De Piscopo che sono stati i precursori. Ovviamente dico che è un peccato. Il rap comunque è una forma di protesta giovanile che va presa in considerazione, come è stata assolutamente presa in considerazione. A me piace molto. Soprattutto partendo dalla fonte, ossia quella americana, poi è venuto fuori Lorenzo (Jovanotti, ndr) e tanti altri.
Tornando indietro… Se Gianni Rock avesse vissuto nell’era dei social network e della discografia d’oggi secondo te avrebbe avuto successo?
Social sicuramente no, perché io riesco sì e no a mantenere i rapporti con il mio Facebook che è l’unica cosa che so fare al di là degli sms. Quando posso, appena posso, anche quando torno da teatro mi metto lì e rispondo ad alcuni dei miei seguaci. Come cantante non lo so, sicuramente sarei rimasto quello che sono. Sarei diventato quello che sono comunque in un mondo di social e di musica diversa dall’epoca. Almeno credo. La mia natura è questa.
Dici sempre di essere pronto a nuove sfide. Allora quale sarà la prossima?
Ti potrei dire la regia di Carmen, ma quello sarà l’anno prossimo e poi ho già fatto la regia di cinque, sei opere, anche se sarà comunque una sfida. Ma di sicuro la grande sfida sarà l’apertura di Umbria Jazz. Ma tu ci pensi (si avvicina alla telecamera, ndr) al cantante di Rose Rosse e Perdere l’amore che apre l’Umbria Jazz Festival?
Chi se lo sarebbe mai aspettato?
L’hai detto tu! Io sto zitto, non dico più niente. Già inizio a sudare e vado in ansia al pensiero (ride, ndr)!
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