Sette anni fa sono arrivato a Roma e non conoscevo né la musica, né il personaggio di Brunori Sas. Una mia amica, che ora vive in Toscana, mi fece ascoltare un po’ di roba, con gli occhi gonfi di stupore di fronte alla mia ignoranza. E ora eccoci qui, con Dario, a parlare del suo nuovo album, “Il Cammino di Santiago in Taxi”, di un tour che va a gonfie vele (il sold out non è un’eccezione) e delle nostre comuni origini. Siamo entrambi calabresi, ma questa è un’altra storia.
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Pungente e ironico come un altro ragazzo delle mie parti, Rino Gaetano, a tratti poetico come Ivan Graziani e Francesco Guccini. Quest’ultimo riferimento non è casuale, perché Brunori padre è romagnolo (“mia mamma è passionale, istintiva, mentre il mio papà è nordico a tutti gli effetti, più riflessivo, più freddo e distaccato…“).
Il disco è piacevole, pare una lunga canzone d’amore mascherata, colma di ironia, di denuncia, di satira originale, colorata, come nel caso del videoclip “Mambo Reazionario”.
Brunori ha scritto un disco privo di etichette, tra il pop, il folk e il funky, forse per questo ogni canzone fa storia a sé e ti invita ad ascoltare quella successiva con maggiore curiosità. Fa specie non averlo ancora visto a Sanremo, ma lui glissa: “Quel palco mi mette ansia, non penso di essere pronto per quel genere di esperienza…“. Il 29 marzo lui e la sua Sas suoneranno a Roma, all’Atlantico: io ci sarò, e non solo io.
Partiamo dal primo singolo, “Kurt Cobain”. Perché nel testo citi proprio lui e Marilyn Monroe? Non penso sia per ragioni di metrica…
Volevo avere come riferimento due icone popolari, due celebrità amate dal popolo, per quello che hanno rappresentato. Di base, l’ispirazione è venuta fuori guardando un documentario, “About a son”, legato a Kurt Cobain: lì ho capito che sarebbe stato interessante cantare l’ambivalenza del successo. Poi tutto è stato molto spontaneo, istintivo.
Istintivo, come decidere di registrare un disco all’interno di una chiesa?
No, quella è stata una cosa più ponderata. Di certo non volevamo il classico studio di registrazione, ma qualcosa di diverso: è stato casuale, in seguito a una sera in cui ci ritrovammo tutti a suonare in questo ex concento di cappuccini della provincia di Cosenza. All’interno, una chiesa consacrata, ma inutilizzata. E tutte le comodità, dalla cucina alle stanze da letto, invitante, stimolante, accogliente. Così ci siamo messi a lavoro…
Ho ascoltato più volte il disco, ho difficoltà a darti un’etichetta: c’è pop, folk, rock, funky. Lo fai apposta, perché non vuoi essere confinato in un angolo, in un genere?
E’ il mio modo di essere, è una mia antica attitudine. Ho sempre ascoltato tanta musica, tanti artisti diversi tra loro, non necessariamente il classico cantautorato. Inoltre, i miei musicisti, tutti diplomati al conservatorio, provengono da esperienze variegate: tutto questo confluisce negli arrangiamenti, in maniera quasi naturale, senza calcoli.
Una chicca il videoclip “Mambo Reazionario”. Come ti è venuta l’idea? Soprattutto, è un attacco velato verso la nostra società, è una satira colorata?
L’idea non è mia, ma di Uolly, è lui che deve prendersi tutte le responsabilità! (ride) Non volevamo essere in primo piano, farci vedere, in realtà si era orientati verso il lyric video, che oggi va tanto e che mi piace parecchio. Poi lui ha ha pensato a una rivista che prendesse vita. Canto, e non è la prima volta, una serie di tematiche sociali, ma con lo sguardo ironico: le nuove generazioni, io per primo, sono poco avvezze all’ideologia, del resto intorno a noi è tutto così confuso, così poco compiuto. Nel video regnano, infatti, dei simboli prima svuotati e poi ricostruiti, guardando all’attualità, a come sono cambiate le cose.
Ci sono due brani, “Nessuno” e “Sol come sono sol”, che sono fotografia del nostro vivere quotidiano. Autobiografici?
Il primo brano che hai citato è parecchio introspettivo, dopotutto questo album riguarda un periodo di vita solitaria. C’è sempre molto di autobiografico, anche indirettamente. “Sol come sono sol” si presenta come un pezzo quasi cialtronesco, ridanciano, sono io che immagino una storia sulla base di cose che ho visto, purtroppo, negli ultimi anni. Si parte da un matrimonio fallito, tutto sfocia nella tragicommedia…
Festival di Sanremo. Ogni anno si fanno alcuni nomi che, puntualmente, non rientrano in lista, penso a te, Dente, pilar e altri. Ti pesa questa cosa?
Quest’anno c’era stato un contatto, poi tutto è sfumato. Ma non abbiamo presentato nessun brano: devo confessarti che vivo con un po’ di timore, di ansia il fenomeno del contesto-Festival, anche se molto è stato ormai sdoganato, lo abbiamo notato con i Perturbazione, ad esempio, che stimo moltissimo e che hanno fatto una grande figura. Ora non sono fatto per quel palcoscenico, sono un tipo che assorbe le tensioni, soffro lo stress. In ogni caso Sanremo non è una necessità, dovesse capitare l’occasione, la valuterò con tutta calma
Torniamo all’album: ne “La vigilia di Natale” c’è un che di evocativo, dei tuoi ricordi d’infanzia. Quanto contano le tue origini in quello che scrivi?
Contano molto, è naturale. Del resto, tutti ereditiamo da qualcuno o da qualcosa quello che oggi siamo: di base, io amo raccontare e il mio mood è estremamente sud. Anche se a volte esce fuori il mio mezzo sangue romagnolo: ho ricevuto un’educazione “mista”, sono passionale e istintivo come mia mamma (calabrese) e a volte più riflessivo e razionale come mio padre.
Tra i pezzi che preferisco c’è “Arrivederci tristezza”. Musicalmente in crescendo, come il testo, prima dimesso e poi combattivo…
Sembra una canzone universale, in realtà anche questa appartiene al mio mondo interiore, si riferisce a un periodo della mia vita in cui tendevo a razionalizzare in maniera eccessiva. Avevo voglia di ribellarmi, vivevo una lotta interiore, avevo bisogno di reagire. Qui, come in altri casi, capisco quanto la musica sia l’unico modo per fare uscire la mia parte ‘sentimentale’, quella che spesso tendo a nascondere.
Chiudo. La tua ‘canzone nell’armadio’, quella che appartiene ai ricordi di quand’eri ragazzino
La mia anima funky è legata all’universo di Prince, sono stati i miei fratelli a farmelo conoscere. Mi viene in mente “Purple Rain”, non solo per la canzone, ma soprattutto quel film che avrò visto 7-8 volte: era il classico polpettone all’americana degli anni ’80, a guardarlo oggi viene da sorridere, ma all’epoca era l’affascinante storia di chi – come me – muoveva i primi passi sul palcoscenico.
(Foto Ufficio Stampa)
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