Warner Music, interno giorno. Fuori piove e un buon modo per ripararsi è decidere di fare una chiacchierata con Filippo Neviani, in arte Nek. Da poco in tutti i negozi di dischi, store digitali, Spotify (e chi più ne ha più ne metta) il suo ultimo disco che come titolo porta il suo nome e cognome: un lavoro inedito, originale, dove l’artista emiliano decide di misurarsi con sé stesso, mettendosi in discussione a 360°. Autore, musicista, interprete e produttore, tutto per cercare nuovi stimoli e avviarsi a una sfida nuova, avvincente. La nostra chiacchierata salta da una parte all’altra, a 20 anni di distanza da un Sanremo colmo di polemiche, sino alla sua amicizia con L’Aura (con la quale tempo fa ha collaborato a una cover di grande successo). In mezzo un album dove spiccano alcuni pezzi come “Congiunzione astrale“, “La metà di niente” (in Spagna il duetto con Sergio Dalma, “La Mitad de Nada”, è già in testa alle classifiche) e, soprattutto, “Hey Dio“, messaggio di speranza legato alla figura di suo padre. Filippo chiude con un pensiero felice per sua figlia: davanti al computer canta spesso insieme a lei…
Cominciamo da un anniversario, 1993-2013: Sanremo e le polemiche per “In te”: a 20 anni di distanza cosa ricordi?
Ce l’avevano “a morte” con me, avevano fatto diventare quella canzone come il leit motiv di tutto il Festival. Ho vissuto un momento difficile, dicevano che Sanremo avesse bisogno di “polemiche”, rumore, che tutto questo facesse gioco alla manifestazione. Subì anche delle piccole pressioni, probabilmente per la mia età (ero giovanissimo e forse fu questo a destare parecchio caos), ma queste era una storia vera raccontata attraverso una canzone.
Autore quell’anno anche per Mietta, in questo disco triplice veste di autore, musicista e interprete: come mai questa scelta?
Ho sempre composto i miei pezzi, lavorando in sinergia con altri: questo disco è il primo che ho concepito, scritto, suonato e prodotto da solo. Una cosa che “dovevo” a me stesso, perché da sempre ho la tendenza a cercare stimoli diversi, in modo da sorprendere me stesso e tutti gli altri. A volte mi fermo anche prima di cominciare, ma oggi, dopo 22 anni di carriera, ho pensato che fosse arrivato il momento di provarci per davvero. Il pubblico potrà o meno decretare il successo: per adesso la gente sta apprezzando la mia volontà di mettermi in discussione. Non voglio fare il passo più lungo della gamba, c’è tanta umiltà alla base di questo lavoro…
Oggi c’è carenza di autori oppure molti non riescono ad emergere: secondo te la colpa è solo dei Talent Show?
Sai, a un Talent può andare anche l’autore, ma l’importante è che venga valorizzato il suo lavoro di autore, il suo percorso: se questi ragazzi diventano meri esecutori, allora sì che è un peccato. Altra cosa è la prospettiva che si dà loro: in seguito dovranno meritarsi questo successo. Tuttavia, oggi viene spesso travisato il concetto che “per diventare qualcuno bisogna meritarselo”. Oggi è sufficiente diventare qualcuno, il passo successivo è imparare il mestiere. Questo secondo me è molto pericoloso…
C’è un pezzo nell’ultimo disco, “Hey Dio”, che unisce rabbia e speranza: hai pensato anche a “Dio è morto” di Guccini, emiliano come te, o questo è solo manifesto d’amore collettivo?
Beh, mi hanno citato Luciano (Ligabue, ndr.) con “Hai un momento, Dio” o Vasco con “Portatemi Dio“: Guccini è un poeta, ma sotto certi punti di vista la vedo diversamente. Io, da credente, mi sono rivolto semplicemente a mio padre: per me Dio è un genitore al quale chiedi consigli e conforto. Il brano rappresenta uno sfogo, è una spinta alla riflessione. Ci si fa delle domande: se ci volessimo tutti più bene, il mondo andrebbe in modo diverso…
“Coraggioso” non inserire in un disco così speciale un nuova versione di un tuo grande successo del passato: come mai?
In un vecchio “Best of” (Anno zero, ndr.) decisi di inserire tre canzoni che il pubblico conosce bene: “Cuori in tempesta”, “In te”, Angeli nel ghetto”. Pezzi datati, sia come scrittura, sia come arrangiamento. In questa occasione, invece, mi sono dedicato solo agli inediti, perché volevo scrivere qualcosa di completamente nuovo.
Seguitissimo su Spotify: secondo te queste nuove forme di ascolto possono essere d’aiuto alla crisi della discografia?
Abbiamo davanti un nuovo modo che permette a chiunque di farsi un contenitore di canzoni. Tutto questo, è chiaro, nel rispetto del riconoscimento di diritti “economici”. Nella cultura di massa passa troppo spesso l’idea che la gratuità possa portare benefici: credo ci sia eccessiva diseducazione da parte di chi dimentica i ruoli. Chi scarica la musica compie un furto, ruba in casa degli altri. Inutile negarlo.
Dopo “Eclissi del cuore”, hai mai pensato a un’altra cover da realizzare, anche da solo? Magari qualcosa dei Red Hot Chili Peppers…
Bello, molto bello quel pezzo. Andò fortissimo in radio. Guarda, ci sono miliardi di pezzi che vorrei rivisitare, dai Red Hot ai Muse, ma quella cover è stata fatta perché apprezzo molto L’Aura: mi sono avvicinato a lei attraverso il nostro comune produttore, la seguivo anche quando non era ancora “qualcuno”. “Eclissi del cuore” è stata costruita in famiglia, perché con noi c’era Dado Parisini a curare gli arrangiamenti. Nel futuro vorrei dedicarmi al mondo delle colonne sonore, dare voce e musica alle immagini, mi piacerebbe davvero tantissimo…
Finale: la canzone che Filippo canta a casa, sotto la doccia o nei momenti di relax…
Ultimamente con mia figlia cantiamo spesso le canzoni di Pippi Calzelunghe: sappiamo bene quanto quella musica sia riuscita ad unire tante generazioni. Non solo il brano del cartone animato, sai, noi andiamo oltre: lei adesso vuole guardare su YouTube la versione olandese, quella del musical! Pensa te, neanche tre anni e già così esigente…!
(foto by Warner Music)
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