Disc-History: Simon & Garfunkel, Wednesday Morning 3 AM (1964)

L’album di debutto del duo folk Simon & Garfunkel, pubblicato il 19 ottobre 1964, era stato inizialmente un flop, essendo stato pubblicato dietro l’ombra dei Beatles che erano appena sbarcati con la loro musica. Questo avvenimento portò Paul Simon ad andare in Inghilterra e Art Garfunkel a riprendere i suoi studi presso la Columbia University a New York City, facendoli separare. Ma un grande amore artistico può avere un ripensamento, per fortuna.

Ho comprato molto tardi “Wednesday Morning 3 A.M.”, in edicola, allegato a qualche rivista o quotidiano. Oggi lo ritrovo su uno scaffale e riascoltarlo fa capire che anche album meno celebrati meritino, comunque, uno spazio nel forziere dei tesori. Se dovessi trovare un verso partirei da questi, figli legittimi di Bob Dylan, adottati qui dal duo newyorkese: “If your time to you Is worth savin’ Then you better start swimmin’ Or you’ll sink like a stone For the times they are a-changin’…” (parole che invitano a non perdere tempo, a nuotare per non affondare come pietre, “The times they are a-changin“)

Simon & Garfunkel hanno scritto e cantato una delle mie venti canzoni favorite (come dicono negli States). Si chiama “The Boxer”, certo la conoscerete. Ma il disco che m’interessa oggi è un altro, è il primo, quello d’esordio: “Wednesday Morning, 3 A.M.“, dodici tracce, dodici suoni nuovi per un rock solo accennato e capace di arricchire una già ricca tradizione folk a stelle e strisce. Vero, forse questo disco non è passato alla storia, pop e folk sono i generi dominanti che confluiscono nello stesso sound finale e l’interpretazione dei due è ancora un po’ acerba. Tuttavia, è proprio la partenza lo scoglio maggiore per chi decide di fare musica. L’esame per me è superato, anche se non a pieni voti. “He was my brother” è un’altra riscoperta, ode nostalgica, rafforzata da una chitarra coinvolgente, sullo stile della signora Joan Baez e del Maestro Dylan: è in pezzi come questo che si fa più incisivo lo stacco dai Beatles, questi due, piacciano o meno, sono un’altra cosa.

Ci sono alcuni pezzi dolci e leggeri, talmente candidi da apparire come preghiere o filastrocche (“Peggy-O“, “The sun is burning“, “Bleecker Street“), altri molto più netti e ficcanti, dove s’insinua un battente rock ‘n roll figlio del tempo (“You can tell the world“). Il brano che dà il titolo all’intero album sembra quasi antipasto o anticipazione delle atmosfere di quella “The boxer” che quattro anni dopo avrebbe riscosso immediato successo.
A metà del disco, la gemma: “The sound of silence” (una di quelle che Mogol avrebbe anche tradotto, seppur con scarsi risultati), versione nuda, con due voci che si alternano e si sovrappongono e un solo strumento a rendere il tutto una canzone a tutti gli effetti. In seguito – come è noto – sarebbero stati aggiunti strumenti elettrici e batteria, ma la prima incisione risulta oggi, a 50 anni di distanza, parecchio affascinante.

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