Sarà un caso, ma anche questa volta – come per il #DarkSide40 dei Pink Floyd – ricorre un anniversario importante. Un album premiato dalla gloriosa classifica del giornale Rolling Stones (261° posto su 500), che ebbe un grandissimo successo nel suo anno di “nascita”. Era il 1988 e una poco più che ventenne Tracy Chapman sbalordiva tutti per la sua incredibile completezza artistica. Cantautrice matura, netta, ottima interprete, in bilico tra il rock e la canzone confidenziale. 25 anni sono passati, resta difficile non includere questo piccolo capolavoro di 37 minuti nella nostra Disc-History: pop che fa l’amore col rock, reggae che, da terzo (in)comodo, impreziosisce il tutto donando al suono complessivo un’anima più frizzante, più fresca. Partiamo dalle ultime parole del disco, parole d’amore: “sei nel profondo del mio cuore mi guardi mentre perdo il controllo pensavo di avere in mano la situazione ma con sensazioni così forti non riesco più ad essere padrona delle mie emozioni”
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Undici pezzi di country-folk genuino: quello che impressiona è come un’artista di 24 anni racconti la degradazione e la miseria con umiltà e lucidità, mettendo da parte rabbia e frustrazione. Atteggiamento maturo e “moderno”, rivoluzionario per l’epoca (1988). Tra Bob Dylan e Joni Mitchell, ecco un folk totalizzante, con sfumature rock e reggae. “Tracy Chapman“, musicalmente, appare quasi un disco semplice, senza picchi estetici: la chitarra acustica si esprime con decisione, ma senza virtuosismi ridondanti. Tutto questo dona alle 11 tracce un colore espressivo davvero impagabile!
Un disco di canzoni belle, una protesta in musica che mancava da molto tempo. Si pensi al classico “Fast Car“, che affrontava lucidamente i problemi tipici dell’America nera di periferia: disoccupazione e difficoltà ad avere i sussidi per vivere. Tracy qui incanta per la gentilezza e la delicatezza dell’esecuzione. Lo stesso accade per “Talkin’ About The Revolution” (“I poveri insorgeranno / e prenderanno ciò che gli appartiene…“)o per quel racconto di violenza familiare di “Behind The Wall“, cantato a cappella e con enorme intensità…
Divenne, col tempo, portabandiera di tutti gli artisti socialmente impegnati, tanto da cantare al Tour “Human Rights” di Amnesty International e al Nelson Mandela Freedomfest, tra il 1988 e il 1989. Diritti, violenza, uguaglianza, senza distinzione alcuna: alla base di tutto l’album e, con maggiore impeto, in “Across the lines” (“Attraverso i confini chi oserebbe andare sotto il ponte sopra i sentieri che separano bianchi da neri…“)
(foto by kikapress.com)
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