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Disc-History: Giorgio Gaber, Far finta di essere sani (1973)

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Vivere, non riesco a vivere, ma la mente mi autorizza a credere che una storia mia, positiva o no, è qualcosa che sta dentro la realtà…“. Parte così il nostro terzo Disc-History: Far finta di essere sani (Giorgio Gaber). L’album raccoglie le canzoni dell’omonimo spettacolo scritto da Gaber e Sandro Luporini. La condizione umana, la società contemporanea, le istituzioni in crisi: questi e altri i temi portanti del primo vero esempio di Teatro Canzone, quella tecnica di narrazione innovativa che avrebbe messo Il Signor G sullo stesso piano di grandi chansonnier europei, con un’unica differenza: lui era anche capace di intrattenere il pubblico solo con l’ausilio di una smorfia…

Quasi ci si sente inadeguati al tempo che corre e che scorre, c’è la consapevolezza di essere vivi, di far parte a pieno titolo della grande storia del mondo. Un’occasione di riscatto, la ricerca di un elemento che doni forza alla propria identità (Cerco un gesto naturale). La condizione dell’uomo, dicevamo, è al centro di tutte le canzoni, ma si fa fortissima ne La comune, un’aspra critica nei confronti della borghesia che esplode nel cuore del testo (“Da te non me l’aspettavo, ti credevo una ragazza sana e pensare che ti stimavo, ti comporti come una puttana…“). Colpisce dritta allo stomaco L’impotenza, così intima, così tempestosa, nonostante i suoi silenzi, avvolge e riscalda il cuore di chi ascolta. Questo grazie a tante espressioni unite tra loro da un filo comune (“Per amare io devo conoscere e amare me stesso…“).

Sono passati 40 anni, sono tanti. Stupisce e rincuora il fatto che Gaber sia riuscito ad anticipare i tempi. A scrivere la storia prim’ancora che questa fosse presente: terribilmente d’attualità, del resto lui era capace di raccontare la realtà come pochi al mondo, ma – allo stesso tempo – di andare oltre. La presa del potere è lirica raffinata e insieme contagiosa: una montagna di neve che ti viene addosso, andamento alternato, tanto nell’interpretazione quanto nella struttura armonica. Leggere il testo avvicina ai migliori editoriali dell’oggi: 40 anni e nulla è cambiato.

Arriva sempre un pezzo commuovente, che tende al ripiegamento, alla nostalgia. Un’emozione è manifesto limpido e toccante di quel che si è vissuto male o, addirittura, solo sognato. Rimorsi e rimpianti: “Un’emozione, lo so, esiste ancora ma ho imparato che può non esser vera…“. Versi che si fanno amare e che fanno paura.

Francesco Guccini diceva che ci sarà sempre un Bertoncelli a sparare cazzate. Per il noto critico musicale l’unico brano di quell’album destinato al canto vero era Chiedo scusa se parlo di Maria. Ascolti e riascolti tutta la track-list e non riesci a venirne a capo. Così ci sarebbero pezzi da cantare, pezzi da ballare, pezzi adatti alle sale d’attesa, altri ideali per fare un viaggio in macchino. E giù di categorie e scatole. Il tutto andrebbe approfondito, fatto sta che l’album è presente nella classifica dei 100 dischi italiani più belli di sempre: almeno secondo Rolling Stone Italia (posizione numero 48).

Al disimpegno de Lo shampoo (mirabile esercizio di stile) fa da contraltare l’impeto de La libertà: quasi una liberazione, che risolve le ansie di partenza, di quando si andava alla ricerca di un gesto naturale. Adesso la volontà, ferma, è quella di essere liberi, liberi come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura. E via con la partecipazione, il desiderio di affermare la propria opinione. Un lungo viaggio pieno di tanti io, a bordo di una nave. E La nave è la vita.

(foto by facebook)

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