Ho conosciuto Niccolò 5 anni fa, quando lavoravo in Via Asiago. Un bravo ragazzo che sapeva fare musica, che non si atteggiava, che non sprecava parole. All’epoca, tuttavia, non sapevo chi fosse veramente. Ero legato a parte della sua famiglia, ma solo a una piccolissima parte della sua musica. Grave. E me ne rendo conto solo oggi. Negli ultimi tempi ho approfondito l’ascolto di tantissimi suoi lavori, apprezzandone la capacità di orchestrare al meglio gli incontri sul palco o in sala di registrazione. Quelle sette note figlie della partecipazione collettiva. In redazione, dopo una lunga e democratica riunione, abbiamo deciso di decretare il suo ultimo album “Ecco” come disco dell’anno 2012. Adesso, in attesa del 20 marzo (un altro concerto a Roma, Auditorium della Conciliazione), mi fa piacere poter parlare di quel che è e di quel che è stato Niccolò Fabi. Da Sting a Laura Pausini, dal folk rock dei 70’s a “Fatti più in là”: intervista coi fiocchi (e coi ricci)…
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Album bello e di grande successo, tour affascinante e con grande seguito: te lo aspettavi?
Ho sempre lavorato in questo modo, adesso come in passato. Non sono cambiate le modalità di approccio a una lavoro in studio: tutto è stato realizzato con cura, a immagine e somiglianza della mia maturità, del mio percorso personale.
Se il tuo disco fosse un libro sarebbe un insieme di racconti, non un romanzo, quindi non un concept album: è sbagliato dire così?
Diciamo che è corretto. “Ecco” sembra quasi un primo disco, per cui è lontano dal mondo dei concept album: quelli sono prodotti che vengono fatti a un certo punto della carriera, quando si scrive tutto in un anno e si riesce a raggruppare tutto in unico un momento creativo (tematiche, generi musicali, sonorità…). Di solito, i primi dischi testimoniano l’educazione musicale dell’artista. Parlando del mio caso specifico, qui si tratta di una serie di storie con un colore diverso tra loro. Il mio stato d’animo era quello di un uomo colpito e addolorato dalla sua vicenda personale, ma non volevo fosse un disco funereo. Né, dall’altra parte, una sorta di disco “caraibico”. Mi sono dedicato alle storie della mia vita, ricordi, pensieri, suggestioni, riflessioni.
“Io” è il mio brano preferito: come s’incastra in questo progetto?
Beh, è un pezzo che sbeffeggia il ricondurre tutto al tarlo dell’individualismo. Nel complesso è una canzone popolare, folkloristica a tratti, con suoni da fanfara. A Roma una volta si parlava di “pasquinate”, quei pezzettini di carta attaccati alla statua di Pasquino: era un modo per criticare il costume del tempo, ma in maniera buffa, allegra. “Io” è anche questo, tutto tranne un trattato sociologico, quello non è compito delle canzoni…
Ti faccio due nomi secchi: Laura Pausini e Claudio Baglioni: come è stato suonare accanto a loro?
Casualmente io, Laura e Claudio siamo nati lo stesso giorno, il 16 maggio. Questo è già un buon punto di partenza. Per lei ho scritto il testo de “Nel primo sguardo”, su musica e melodia scritta a quattro mani con Paolo Carta. Una bellissima opportunità professionale, esperienza autorale di grande rilievo. Mi sono confrontato con una struttura melodica meno articolata rispetto alle mie, soprattutto a livello di metrica. Con Laura mi lega un’amicizia antica, facemmo insieme “Sanremo Famosi”, nel 1992, poi lei tornò a Sanremo e da lì partì la sua carriera. Su Claudio cosa dire!? Una leggenda musicale del nostro paese, per 15 anni ho ascoltato (anche di sfuggita) i suoi album, apprezzando, giudicando, a tratti criticando. Difficile non rilevare un immenso intuito melodico, dischi estremamente belli e non sempre di “facile ascolto”. Sono stato con lui a Lampedusa tanti anni fa: “O’ Scià” rappresenta ancora un Festival colmo di senso…
Talent Show: prima X-Factor, poi una pausa di garanzia con Sanremo e adesso arriva The Voice: andiamo oltre, personalmente hai un nome tra quelli del sottobosco sul quale punteresti?
Ce ne sono tantissimi, potrei dirtene almeno una decina nei prossimi minuti. Al momento penso ad Alberto Bianco, a Colapesce, allo stesso Pino Marino, non più giovanissimo ma dotato di una grandissima poetica. Questi e altri hanno difficoltà a trovare una dimensione dignitosa per proporre la propria musica. Sui Talent ho la mia idea: se uno ha un racconto, una storia da parte, una storia da raccontare, non può esibirsi in contesti di quel genere. Lì ruota tutto attorno all’ottica della performance…
Un paio di anni fa ti sei esibito da solo (strumenti e loop station) in moltissimi teatri italiani: rifaresti quell’esperienza?
Assolutamente sì, mi è congeniale: se tu non sei in grado di stare da solo, poi con gli altri non riesci ad essere equilibrato. Io colgo la meravigliosa bellezza di suonare con gli altri, non come necessità, ma proprio come gusto.
Andiamo a Sting: una volta suonavi la batteria in una sua cover band, in seguito quel sound ha influito sul tuo modo di fare musica?
Ho avuto l’opportunità, il piacere, di aprire una tournee di Sting nel 2000, mentre un paio d’anni fa suonai con Stewart Copeland. Un cerchio che si chiude, con queste che sembrano figure lontanissime dalla tua vita, e poi accade l’imprevedibile. Da ragazzo vidi i Police al PalaEur: 20 anni dopo qualcosa cambiò, verso una musica totalmente familiare, sotto tanti punti di vista. Negli ultimi tempi, tuttavia, più che a Sting mi sono accostato al folk rock degli anni ’70, penso ad esempio a Crosby, Stills, Nash & Young…
Chiudo, abbassando il livello: c’è una canzone che Niccolò Fabi canticchiava nei corridoi di casa o sotto la doccia, quand’era ragazzino?
A casa e in famiglia la musica era come l’aria. Potrei dirti “Dolcissima Maria” della PFM, oppure “La sedia di lillà” di Alberto Fortis, sino a “Rock around the clock”, la famosa sigla di Happy Days! Parlando di Tv e di robe in qualche modo legate ai miei parenti stretti, mi spingo oltre e ti cito “Fatti più in là“.
(foto by kikapress.com)
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