Ron racconta Way Out e ammonisce: “Rispetto per Lucio Dalla…”

Non ci vedevamo da alcuni anni, da quando a “Parole Parole”, programma radiofonico di Vincenzo Mollica, mi avvicinai a lui chiedendogli di cantare “Io ti cercherò”. E allora, chitarra in braccio e, senza battere ciglio, avanti con i primi accordi. Oggi le cose non sono cambiate, Ron è sempre lo stesso: generoso e disponibile, artista di sostanza e qualità. “Way Out” è un bellissimo disco, parecchio intimo e con sonorità sporcate dall’atmosfera casalinga. Una via d’uscita, una boccata di aria fresca, con brani che “profumano” di cantina (da “Palla di cannone” a “Non si torna indietro”, da “Ragazzo” a “Gran Torino”). Ron e i suoi musicisti hanno registrato tutto in salotto, senza preoccuparsi dei “rientri” degli strumenti sui microfoni della voce o di altri eventuali difetti.

Visto che ci siamo, che non ci sono limiti di tempo, gli faccio fare un passo indietro, con “Sabato animale”, e un altro nel futuro, a proposito dei suoi progetti didattici. Fanno da sfondo una riflessione su Lucio Dalla e un piccolo sogno: dare a James Taylor una sua canzone…

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Un disco giovane, fresco, sembra quasi il tuo “nuovo primo disco”: ma come t’è venuto in mente di fare questo “Way Out”?

Hai detto una cosa vera, è il disco che avrei sempre voluto fare, l’ho affrontato con rispetto verso tutti gli autori “coinvolti”, con molta attenzione nel sistemare tutti i brani grazie al prezioso aiuto di Mattia Del Forno. Cercando di mantenere intatto il loro senso. Ho ricominciato da me, da capo. Tutto parte dal brano “Una città per cantare”, dall’esperienza con Jackson Brown: era una canzone tradotta da Lucio Dalla, io ci stavo dentro alla perfezione, sembrava un abito fatto su misura.

Damien Rice si è fatto conoscere dal grande pubblico con il film “Closer”: ti piacerebbe scrivere musica per il cinema?

Mi piacerebbe, eccome. Anche tra le canzoni di “Way Out” ci sono spunti molto belli per possibili progetti cinematografici. Ad esempio, “Gran Torino” è stata arrangiata in maniera completamente diversa rispetto alla pur straordinaria versione di Jamie Cullum: lui aveva accanto 60 elementi d’orchestra, io ho fatto un pezzo più “on the road”. Qualcosa di simile la sento anche in “A testa alta” e “Ragazzo”. Musica da cinema, assolutamente si…

Ci sono alcuni tuoi brani un po’ meno “fortunati” che secondo te potrebbero acquistare un sapore nuovo se tradotti in lingua inglese?

Mi viene in mente “Anima”, me la immagino cantata da James Taylor, potrebbe farla in modo strepitoso. Se ci penso, ti dico anche “Sabato animale” o “Le foglie e il vento”. Dopotutto, ti ripeto, io ho sempre ascoltato la musica angloamericana, ho sempre lavorato sulle “tronche”: i miei testi dovevano riuscire a star dentro a una metrica che non fosse per forza quella italiana.

Hai interpretato alla grande una perla come “Quando sarò capace di amare”. Ora sono passati 10 anni dalla morte di Giorgio Gaber: cosa manca oggi alla musica italiana?

Manca la voglia di stare su un palco, essendo totalmente liberi. Libertà è espressione, parola, inventare un modo di raccontarsi e raccontare. Giorgio aveva inventato un modo nuovo di fare spettacolo, con grande intelligenza, divertendosi e facendo divertire il pubblico stesso. Uno come lui oggi non c’è, inutile nasconderlo.

I tuoi punti di riferimento della fanciullezza sono stati Crosby, Stills, Nash & Young, Joni Mitchell, James Taylor, Jackson Browne. Un duetto impossibile con un grande artista internazionale?

Molto difficile fare dei nomi: penso ai nomi che hai fatto tu, ma vado oltre e dico anche Cat Stevens, Ray Charles, John Lennon… Gente con la musica nel cuore.

Ti sei soffermato spesso sulla carenza di autori, lo stesso ha fatto Bungaro: c’è una ricetta per “sistemare le cose”?

Basterebbe fare un Talent Show dove accogliere autori. Purtroppo la Tv esige canzoni famose: ormai sono tutti televisionati, compresa la musica. Un pezzo molto noto gira alla grande, l’inedito non ce la fa. E pensare che in giro ci sono giovani con bellissime cose da parte. Quella è proprio la gente che non si presenta mai alle audizioni dei talent. Ricordo quando Biagio Antonacci faceva il carabiniere a Garlasco, venne da me e mi disse: “Io ho delle cose da farti sentire”. Si mise a disposizione, aveva voglia di imparare e di farsi conoscere. Non di diventare famoso. Lui è diventato un ottimo autore, col tempo. Non dobbiamo dimenticare che gli autori sono il sale della musica.

E la tua scuola che roba è?

Abbiamo due sedi, Vigevano e Garlasco. Un progetto didattico, “Una città per cantare”. Un punto di ritrovo, un laboratorio musicale. Dove regna la serenità e non si viene giudicati. Io consiglio a tutti di studiare subito uno strumento: è importante, in questo mestiere, essere indipendenti, vivere di musica anche per i locali. Se devo dirti qual è il mio obiettivo, beh, conto di insegnare a questi ragazzi a scrivere musica e a metterci dentro dei testi “pesanti”. Dovremmo tornare agli anni ’50, all’epoca si andava prima in giro a suonare e solo in seguito a fare un disco. Oggi è il contrario!

Ultime due curiosità. Baglioni è stato il primo a “profanare” la tua hit “Non abbiam bisogno di parole”. Poi è toccato a Marco Mengoni, giovane che tu stimi tantissimo…

Claudio scelse quel brano in particolare per quel mio disco particolare: un’occasione speciale, era un progetto per i malati di SLA. A Claudio piaceva da matti quel pezzo! Forse, alla lunga, è risultato meno facile all’ascolto, rispetto a tutti gli altri. Piace molto ai nostri fan, forse meno alla massa. Per quel che riguarda Marco, anche lui ha voluto cantare fortemente quella canzone: ha deciso lui, mi ha dimostrato quanto potesse essere un brano adatto alla nuova generazione.

Non parlo di Sanremo, l’attualità non può che essere Lucio Dalla: l’omaggio di molti amici cantautori il 4 marzo a Bologna in Piazza Maggiore. Cosa sarà?

Sono stato tra gli ultimi ad essere contattato, invitato. Va bene così, nessun problema, non pretendevo nulla. Credo, tuttavia, che non sia sufficiente mettere insieme dei nomi: Lucio era un uomo speciale. Aveva capito la grandezza di Vasco quando erano in pochi a filarselo, era capace di spendersi anche per quelli che non riuscivano a sfondare, credeva molto in talenti espressi solo a metà, penso ad Angela Baraldi, per fare un nome. Era uno che pensava molto, non dava mai niente per scontato e la sua grandezza era quella di scherzarci sopra. Ci vuole rispetto per una persona del genere, mi auguro che andrà tutto in questa direzione.

(foto by facebook)